Uomo: esistenza reale? Il pensiero di Miguel de Unamuno

L’uomo «di carne ed ossa»

Nel pensiero del filosofo spagnolo Miguel de Unamuno (1864-1936) niente appare come concluso e definitivo, ma, al contrario, come frammentario e problematico. Nelle sue riflessioni, il punto di partenza è sempre l’uomo. Non la natura umana, non l’uomo generico (che per Unamuno non esiste), bensì l’uomo concreto, «di carne ed ossa, che nasce, soffre e muore – e sopra tutto muore». È dunque l’individuo, con la sua coscienza, le sue passioni, i suoi sentimenti, i suoi conflitti, immerso nella sua reale esistenza, «il soggetto e il supremo oggetto a sua volta di ogni filosofia». Per questo Unamuno insiste nell’affermare il suo “io” e, citando Obermann, dice: «Io, io, io, sempre io! […] e chi sei tu? […] per l’universo niente, per me tutto».

L’uomo e Dio

Sono in particolare le questioni della mortalità e dell’immortalità gli autentici ed eterni problemi delle riflessioni di Unamuno. L’essenza di un individuo è perseverare nel suo essere, nell’opporsi costantemente al suo possibile niente (dopo la morte fisica), sforzandosi quindi per la sua immortalità. Ma la ragione, da una parte, afferma che ciò è impossibile, mentre la brama di sopravvivenza, dall’altra, lo ritiene possibile. Secondo Unamuno è proprio questo imperativo vitale ciò che spinge l’uomo a credere in Dio: l’immortalità della sua anima. Si consideri questo suo passo:

Un giorno, parlando con un campagnolo, gli proposi l’ipotesi che ci fosse effettivamente un Dio che governa cielo e terra, […], ma che non per questo l’anima di ogni uomo dovesse essere immortale nel senso tradizionale e concreto. E mi rispose: – Allora perché Dio? -.

Con la domanda «allora perché Dio?», il campagnolo vincola l’esistenza di Dio unicamente alla sua funzione di garante dell’immortalità dell’anima di ogni uomo; e se l’anima non è immortale, allora a che cosa serve Dio? Ecco perché Unamuno ritiene che Dio non sia altro che una proiezione dell’essenza umana. La prova dell’esistenza di Dio non è infatti dimostrabile con argomenti razionali, ma viene invece data dalla nostra istintiva volontà di sopravvivenza, dall’incapacità di rassegnarsi di fronte alla morte, dal desiderio di immortalità. Si consideri quest’altro suo passo:

[…] al Dio vivo, al Dio umano, non si arriva per il cammino della ragione, bensì per il cammino dell’amore e della sofferenza. La ragione anzi ci allontana da Lui. Non è possibile conoscerlo per poi amarlo; è necessario (invece) cominciare con l’amarlo, con l’anelarlo, con l’avere fame di Lui, prima di conoscerlo.

Questo Dio desiderato, anelato, amato, frutto di sofferenza, è la proiezione all’infinito dell’uomo concreto, «di carne ed ossa». Questo Dio al quale si arriva per mezzi non razionali è il supremo irrazionale.

L’uomo e l’ente di finzione

Nel romanzo Nebbia, Unamuno mira a rappresentare, rispetto ai suoi personaggi, il ruolo che Dio ha verso gli uomini, e porsi in un certo senso al di sopra della morte, poiché nell’attività letteraria riesce a disporre a suo piacimento della vita e della morte altrui. Nel capitolo XXXI, il protagonista Augusto Pérez, dopo aver percorso il cammino dell’amore (per le donne) e della sofferenza (per un’atroce beffa), sente di aver quasi perso il lume della ragione e decide d’incontrare Unamuno (ignorando, ma ancora per poco, che fosse il suo creatore), per consultarsi con lui prima di attuare il suo proposito di suicidarsi.

Nel dialogo che segue, viene rivelato ad Augusto che egli è solo un ente di finzione, che non esiste al di fuori della produzione romanzesca, e che non può uccidersi perché Unamuno, il suo creatore, non vuole questo per lui. Ma Augusto, superato lo sgomento iniziale, lotta con tutte le sue armi dialettiche per preservare la propria indipendenza e autonomia, e insinua che sia invece Unamuno a essere subordinato all’ente di finzione e a non esistere al di fuori dei personaggi che egli crea. In questa visione, Augusto nega dunque un’esistenza autonoma all’autore, che viene perciò retrocesso a mero attributo delle sue creature. Per contro, Unamuno deve sforzarsi di affermare le prerogative della sua realtà, anteriore e preesistente al contesto romanzesco in cui sta avendo luogo quel dialogo.

Augusto sostiene dunque di essere dotato di esistenza reale, e appoggia le sue argomentazioni proprio sulle idee di Unamuno, estrapolate cioè dai suoi saggi: «non è stato lei che, non una, ma varie volte, ha detto che don Chisciotte e Sancio sono, non altrettanto reali, ma più reali di Cervantes?». Difatti, al pari del personaggio di fantasia, anche l’uomo in carne e ossa è un’entità creata; e dunque, se viene concessa un’esistenza reale all’uomo, perché non dovrebbe essere fatto altrettanto con l’ente di finzione? Ecco perché, secondo Unamuno, sia l’uomo che il personaggio di fantasia sono portatori di un’autentica, sia pur diversa, realtà.

Nel proseguo, Augusto, vedendosi ancora negata da Unamuno la libertà di suicidarsi, introduce la seguente riflessione dialettica: anche ammettendo che sia solo un ente di finzione e che l’esistenza reale sia prerogativa dell’autore, questi non può comunque entrare nella sfera di autonomia del personaggio, perché «persino i cosiddetti enti di finzione posseggono la loro logica interiore». Essa implica dunque un libero arbitrio, cui l’autore deve rimanere estraneo. Augusto termina dicendo: «ho il mio carattere, il mio modo di essere, la mia logica interiore, e questa logica richiede che mi uccida».

Ma l’autonomia e la libertà d’azione che Augusto rivendica, e per le quali sta disperatamente lottando, non sono finalizzate allo scopo di uccidere il suo “io” e la sua personalità, bensì allo scopo di uccidersi come ente immaginario perché spera così di poter rinascere come autore di sé stesso. Infatti quando Unamuno, stanco dell’irriverenza di Augusto, gli comunica di aver preso la decisione di farlo morire, Augusto lo implora di non eseguire il suo proposito, sostenendo che vuol vivere, anche a costo di una vita qualsiasi: posto dinanzi alla prospettiva del nulla, si accontenta di mantenere il suo “io” e la sua realtà di ente immaginario.

I tre piani d’esistenza

L’impianto del romanzo si presta quindi ad una interpretazione in chiave duale: guardata dal punto di vista dei lettori, i personaggi (gli enti di finzione) non sono reali perché non sostengono autonomamente la propria esistenza, in quanto sono il risultato di una fantasia, o un sogno, dell’autore. Ma se consideriamo la realtà dell’uomo, abbiamo un’analoga situazione: guardata dal punto di vista di Dio, infatti, è l’uomo a non poter sostenere autonomamente la propria esistenza in quanto sono il risultato di un atto creativo di Dio. Si delinea, in questo modo, una precisa gerarchia ontologica: Dio, l’uomo, l’ente di finzione. Dio crea l’uomo, e l’uomo crea l’ente di finzione. Sono tre piani d’esistenza, tre differenti entità che possono dire “io”.

In conclusione, Unamuno ci invita a dubitare della nostra reale esistenza, tanto fisica quanto spirituale. Per farci porre cioè quei dubbi senza i quali, secondo Unamuno, non può esserci vita: «La vita è dubbio, e la fede, senza il dubbio, non è altro che morte».


Dalla mia Tesi di Laurea

Il presente articolo è il secondo, di una serie di quattro, in cui rivisito alcune parti della mia Tesi di Laurea intitolata “La realtà annebbiata: Il pensiero metafisico di Miguel de Unamuno e Jean Baudrillard” (Anno Accademico 2009/2010). I quattro articoli della serie sono:

  1. Nebbia. Romanzo di Miguel de Unamuno
  2. Uomo: esistenza reale? Il pensiero di Miguel de Unamuno
  3. Simulacro e iperrealtà. Il pensiero di Jean Baudrillard
  4. Realtà annebbiata. Un confronto tra Unamuno e Baudrillard